Considerazioni quasi diaristiche sul mio rapporto con la gentilezza nell’ambito della mia esperienza con la mindfulness.
Ho incontrato la Mindfulness molti anni fa partecipando ad un protocollo per la riduzione dello stress. La ragione che mi aveva spinta a partecipare era dettata, oltre che dalla curiosità professionale per un approccio che iniziava a diffondersi in Italia, da un momento di vita in cui la mia navigazione personale non era tranquilla e sentivo il bisogno di riorientarmi.
Durante quell’esperienza, che ha letteralmente segnato l’inizio di una rivoluzione nella mia vita, più volte sono stata invitata ad un atteggiamento di gentilezza ma portare attenzione a questo aspetto mi suonava stucchevole e buonista.
“Non sono forse una persona gentile?”, mi chiedevo. “Certo che lo sei!” rispondevo con sicurezza. Con queste parole liquidavo la questione certa di non dovermi occupare di qualcosa che pensavo appartenermi già.
Conclusa l’esperienza del protocollo ho continuato a praticare la mindfulness ricevendo grandi regali, e ho poi maturato la decisione di portare tutto questo nella mia vita professionale diventando istruttrice di mindfulness.
Durante il percorso di formazione il tema della gentilezza ha ricevuto molta attenzione.
Nell’approcciarlo mi sono accorta che le mie perplessità, ancora persistenti, erano accompagnate da nuovi pensieri che mi dicevano: “Se riceve tutta questa attenzione ci sarà un motivo, prova a vedere di cosa si tratta, approfondisci, forse c’è altro”.
Da qui sono partita iniziando a non archiviare rapidamente i pensieri che ruotavano intorno gentilezza ma a guardarli. Darmi questa intenzione e accogliere la curiosità, anziché arroccarmi dietro le mie idee, credo sia stato il primo atto di gentilezza che ho consapevolmente rivolto a me stessa.
Sebbene l’intenzione facevo ancora molta fatica e si riaffacciavano i pensieri: “A me questa cosa che dobbiamo essere gentili non mi convince. Che vuol dire? Che non mi devo più arrabbiare? Che tutto deve andarmi bene? E se qualcuno mi fa un torto, se mi fa soffrire dovrei anche essere gentile? Accettare, va bene. Ma fino a che punto?”.
Cercavo di aprirmi ad una soluzione ma l’ambivalenza si faceva ancora sentire.
Ho notato l’inizio di un cambiamento quando mi sono accorta di giudicare un po’ meno la mia pratica. Ero meno intransigente con me stessa e accoglievo quel momento evitando di valutare come era andata.
Più volte mi sono ritrovata a pensare: “Non importa se va bene o se va male, io intanto respiro”.
Quelle parole hanno aperto uno spiraglio, mi sono sentita più pacificata nel vedere il giudizio mollare la presa e ho riconosciuto in quelle parole accoglienti un nuovo moto di gentilezza verso me stessa.
L’ effetto è stato sorprendente e molto potente. Me ne avevano parlato esattamente in quei termini ma la mindfulness non è solo capire, è stare con l’esperienza e
solo passarci attraverso con consapevolezza mi ha permesso di capire l’importanza della gentilezza verso me stessa e la sua valenza trasformativa.
Da allora molto è cambiato e la gentilezza ha trovato spazio nella mia vita. Mi riferisco a “quella gentilezza” che non è solo essere bene educati e civili ma è una postura interiore di attenzione affettuosa a tutto tondo che include noi stessi, gli altri esseri viventi, l’ambiente in cui viviamo, le cose che adoperiamo.
Fare amicizia con la gentilezza mi ha ripagato su molti versanti, finora questi sono i più evidenti ma sono certa che ho ancora molto da scoprire.
È gentilezza:
sapermi orientare verso ciò che riconosco come salutare per me,
sapermi sottrarre a ciò che riconosco come non salutare per me,
quando non posso sottrarmi a condizioni spiacevoli occuparmi del mio disagio chiedendomi “cosa posso imparare da questo momento?”
ascoltare il mio corpo
riconoscere quando “la sto facendo troppo lunga” e non alimentare l’avversione, capire quando uno sfogo diventa alzare il tiro e fermarmi
fare attenzione a come mi rivolgo agli altri, alle parole che uso, a quando le uso
fare attenzione a come mi rivolgo a me stessa, ai giudizi e alle parole che mi dico
riconoscere le debolezze dell’altro
conoscere le mie risorse e capire se e quando è opportuno offrirle all’altro
conoscere e le mie debolezze e capire quando ho bisogno di aiuto
Infine in un seminario sulla gentilezza nelle parole di Neva Papachristou, insegnante guida dell’AMECO (Associazione Meditazione di Consapevolezza), l’antica ambivalenza ha definitivamente trovato pace.
“Non poniamoci traguardi troppo lontani, gentilezza è fare ciò che ci è possibile. Non cerchiamo gioia infinita o gentilezza massima ma solo ciò che ci è possibile”.
Da quel momento possibile, che identifico come il confine tra il “non fermarsi prima” e il “non andare oltre”, è diventata la parola che mi accompagna alla continua scoperta della potenza della gentilezza.