Accettazione nel secondo Lockdown

Apro gli occhi.
Sono in camera mia.

Camera mia è anche il mio ufficio, la mia università, il mio salotto e la mia stanza degli ospiti (virtuali).
Guardo fuori dalla finestra e vedo il tempo.
A volte mi chiedo che cosa lo guardi a fare se fuori di casa passo pochi minuti e nemmeno ogni giorno.
Non posso andare a trovare il mio migliore amico, non abita neanche distante.
Nemmeno la mia ragazza, che lo è di più.
La mia mente, come naturale che sia, pensa subito ad una soluzione, ma è stroncata in partenza.
Non si può e basta, non posso ragionare su una soluzione che non rischi di farmi arrestare.
Penso a quando mi lamentavo di non essere mai a casa.
Penso a quante cose facessi e quanto avessi la sensazione che il tempo per farle non bastasse mai.
Sono triste, è un tempo andato che non può tornare e non è giusto, non lo voglio.
Sono arrabbiato, speravo che sarebbe stato un inverno diverso dalle peggiori previsioni, ma non lo è e non ho potuto farci niente, vorrei urlare e lanciare il computer che monopolizza le mie giornate contro il muro, rompendolo in mille pezzi: come se potessi così rompere anche questa routine obbligata.

Accettare.

Respiro e chiudo gli occhi: sento di essere arrabbiato, sento di essere triste.
Porto tutta l’attenzione su di me, sulla tensione nella mia pancia, nella mia faccia, il mio nodo in gola.
Le mie emozioni sono lì e le posso sentire appieno, posso compatirmi per il fatto che le stia provando: è comprensibile.
Provo compassione per me stesso: ho perso tanto, come tutti.
Non saprei rassicurarmi rispetto al futuro incerto, non si può mai sapere cosa succederà.

Non posso riconsegnarmi ciò che ho perso, è perso e nessuno me lo può ridare.
Non posso sconfiggere queste sensazioni, non dovrei e non voglio nemmeno.
Ho represso tante volte la tristezza e, nella lotta, colpisce appena abbassi la guardia e ti ritrovi a piangere senza un perché, o almeno un perché che tu possa ricordare.
Ho represso tante volte la rabbia e, quando credevo di averla emarginata, è riemersa per le ragioni più futili e di fronte a piccoli comportamenti altrui che diventano pesanti come gravi offese, lasciando gli altri sbigottiti di fronte al tuo reagire che, ai tuoi occhi, appare come assolutamente giustificato; si aggiunge la rabbia di non venire compresi.

Che senso avrebbe sconfiggere quello che io stesso provo?
Perché dovrei provare qualcosa che non dovrei provare, magari facendo finta che non esista?

Accettare non vuol dire arrivare a non vivere più il problema e nemmeno agire come se non ci fosse. È qualcosa di più profondo, che passa dal guardare a noi stessi nel presente, notando ed accogliendo anche quello che non vorremmo sentire ma, inevitabilmente, è.

Mi fermo ed ascolto, do alla rabbia lo spazio che chiede, la sento urlare e darmi interpretazioni e consigli che è meglio non seguire, per poi sedersi. La sento borbottare, ma non urla più.

Do alla tristezza lo spazio che chiede e piange disperatamente, l’ascolto parlarmi di disastri certi e delle mie condanne inevitabili, dei miei peggiori incubi che si realizzeranno sicuramente, di ciò che ho sbagliato e per cui non potrò mai perdonarmi, per quello che non vorrei essere e che non potrò fare niente per cambiare. La sento singhiozzare, ma non piange più.

Ora siamo io e le mie emozioni, con una giornata davanti e tante cose da fare.
Le ringrazio per essersi espresse, per avermi dato dei consigli che mi ha fatto molto piacere ascoltare.
Propongo un compromesso: sperare in un domani diverso, ma concentrarci adesso.
Dare alla rabbia un modo di sfogarsi, lavorando in una situazione avversa usando i mezzi a mia disposizione al posto di distruggerli. Non c’è niente che possa esprimere più potenza che progredire di fronte alle avversità e, la rabbia, vuole spesso esprimere potenza, mostrare i muscoli e i denti per fare ascoltare il proprio umano che la ospita.

La tristezza mi ha parlato di paure di fallimento, di impotenza: propongo di fare quello che possiamo, a partire dalla prossima ora. Quando ci è possibile farlo, non possiamo agire sul futuro se non momento per momento.

Le sento borbottare e singhiozzare, ma dicono di sì.
Grazie.

Apro gli occhi.
Sono in camera mia.
Accendo il computer.

Reprimere le emozioni non sortisce quasi mai l’effetto sperato, seguire ciecamente le loro direzioni ci porta ad agire in modi che vanno contro i nostri stessi interessi, sfogarle facendo qualcosa di gratificante nel breve termine ci permette di non sentirle per un periodo di tempo che, una volta finito, cede nuovamente il posto alle emozioni che abbiamo provato ad allontanare.

La mindfulness ci permette di vederle in un modo nuovo, che apre a nuove possibilità: le nostre emozioni non ci definiscono, quello che suggeriscono non è quello che dovremmo fare od un dato di realtà ma dobbiamo ricordarci che sono un prodotto del nostro sistema che non agisce mai per caso ed ignorarle significherebbe disconoscere una parte di noi stessi.

Possiamo vivere meglio l’intensità delle emozioni ed agire meno impulsivamente se, con accoglienza, stiamo dentro di esse e le ascoltiamo appieno come se fossero allo stesso tempo parte di noi e qualcosa di esterno. Possiamo poi ragionare ad una strategia che soddisfi i bisogni da cui nascono, permettendoci però di non compiere azioni sconvenienti.
Il comportamento impulsivo, guidato dalle emozioni, e quello pianificato si compensano a vicenda cercando un equilibrio che meglio garantisce il raggiungimento dei nostri interessi: più frequentemente ci alleniamo a fare ciò, più frequentemente possiamo essere efficaci, rendendo l’azione nelle volte a venire più spontanea e meno faticosa.
L’allenamento per convivere con le proprie emozioni non è intuitivo perché, piuttosto che sforzarci di combattere qualcosa che è parte di noi, potremmo sforzarci di non giudicare e lasciare noi stessi liberi di ascoltare quelle sensazioni e pensieri senza resistergli né lasciargli le redini del nostro comportamento.

È un processo lungo che inizia però con un semplice gesto che è quello di respirare, con gentilezza, accorgersi della presenza di queste nostre alleate e ringraziarle per il loro lavoro apprezzabile, seppur imperfetto.

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A presto!

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